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Il vasaio Giacchino

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Il vasaio Giacchino

Questa è una storia di mezzo secolo fa, risale appunto alla fine degli anni cinquanta e i principali protagonisti sono un gruppo di scalmanati ragazzini dai sette agli undici anni. Inutile dire che tra loro vi era anche chi oggi la racconta.
Il luogo in cui si svolge la storia è, manco a dirlo, Montepiano, il mio paese in provincia di Matera. All'epoca dei fatti il paese contava più di dodicimila abitanti (oggi nemmeno la metà, soprattutto vecchi) e le classi scolastiche elementari, come pure quelle delle medie, composte rigorosamente da ventotto alunni, arrivavano alla lettera "H" mentre oggi, con classi di appena venti alunni siarrivaallalettera"B".
Ciò sta significare come all'epoca un migliaio di piccoli avventurieri da strada si scervellassero per trovare un modo per passare i pomeriggi, senza televisione, computer, Nintendo e diavolerie varie. L'unico svago era appunto la strada che pullulava di bande di quartiere che a volte si univano tra loro, formando effimere alleanze, per combattersi prendendo spunto dai soliti film della domenica proiettati nell'unico cinema esistente. Anche quella di entrare nel cinema era un'impresa, e non da poco, perché bisognava intrufolarsi sotto lo sguardo attento del "caporale", il controllore e bigliettaio. Non sempre si riusciva a fargliela e allora bisognava mettere mani "alla tela" ovvero scucire i soldini, fare una colletta e andare a comprare un pacchetto di Nazionali per poi mercanteggiare l'ingresso con le sigarette sfuse.
Il cinema era per le bande una inesauribile fonte d'ispirazione sebbene i film proiettati fossero quasi sempre dello stesso genere, cappa e spada, banditi e indiani (Ombre Rosse visto e rivisto almeno venti volte), Robin Hood, Ivanohe. Corsari e pirati vari.
Si usciva dal cinema con tutte le scene impresse nella mente (tranne baci, carezze e moine varie per molti di noi ancora premature) che, durante la settimana a seguire, venivano rielaborate e adattate sull'unica scenografia esistente,la strada appunto.Ad essere sinceri non si faceva molta fatica a rigirare" le migliori scene dei films anche perché la fantasia non scarseggiava certamente e poi, in fatto di armi, si rasentava l'incoscienza. Le migliori armi, oltre alle solite spade fatte con scarti di carpenteria o, nel migliore dei casi, con manici di scope e gli scudi che andavano dai semplici cartoni con legacci di spago ai coperchi delle pentole, trafugati per l'abbisogna, vi erano archi, frecce e fionde.
Gli archi venivano ricavati in due modi, da sottili rami di alberi che molto spesso si spezzavano in mano per la troppa tensione a cui venivano sottoposti o dalle stecche di metallo degli ombrelli del tempo, simili agli ombrelloni da spiaggia di oggi. Inutile dire che le frecce tirate con i primi archi non valevano granché, gittata corta e tiro molto impreciso, quelle tirate con i secondi, composte dalle medesime stecche avevano una gittata maggiore e, grazie a Dio, una massima imprecisione perché quando arrivavano, se arrivavano, facevano male.
Discorso diverso erano le fionde. Qui ci voleva davvero arte speciale, primo per trovare gli incroci adatti tra i tanti rami della natura e in secondo tempo procurarsi la molla adatta, ovvero quella ricavata dalle camere d'aria delle biciclette (quelle di color rosso per chi se le ricorda) perché erano molto elastiche nonché resistenti. A questo punto contava l'abilità del fiondista, qualcuno era capace di lanciare proiettili anche a cento metri di distanza con la massima precisione. Ripensando a quei giorni è con estrema meraviglia come non ricordo di alcun caso di un ragazzino colpito da quelle armi micidiali. Forse era proprio per questo che i fiondisti erano in numero scarso, A tirare non tutti eranobuoni!
Arrivò infine il giorno che il cinema chiuse per qualche mese per problemi tecnici, così dissero, e le bande del quartiere si trovarono "disoccupate". Fare e rifare le scene dei films già visti diventava monotono e quindi ognuno cercava diinventarsiqualcosa.
Ecco, oggi, a distanza di oltre mezzo secolo, non ricordo chi ebbe la scellerata idea, anche perché non ho fatto la spia allora figuriamoci se la faccio oggi; comunque fu, che uno di noi improvvisamente propose di prendere di mira quel povero disgraziato di "Giacchino il vasaio". A questo punto, per meglio intenderci,necessita un approfondimento.
Un centinaio di metri appena l'ingresso del paese inizia via Vittorio Emanuele, la strada principale che tutti chiamano "il corso", in verità è una strada larga al massimo una decina di metri che arriva fino a piazza Monumento, da qui continua verso l'altra piazza del paese, piazza Cavour, cambiando pomposamente il nome in corso Garibaldi.
A metà circa del "Corso" si diparte una larga e lunga scalinata che discendendo collega il vecchio quartiere "Caporetto", un rione edificato nel ventennio fascista per dare un alloggio decente ai reduci della prima guerra mondiale.
La scalinata, a sua volta, è interrotta a metà percorso da un tratto pianeggiante lungo un'ottantina di metri per poi riprendere la discesa definitiva. Lungo questo troncone, negato agli automezzi, si trovavano alcune botteghe artigianali, un paio di falegnami, un fabbro, un sellaio, un sarto, un ramaio e infine il vasaio Gioacchino, da tutti chiamato Giacchino. Costui aveva il suo laboratorio proprio alla fine del primo tratto della scalinata e nelle calde giornate di sole usava esporre sulla scalinata i suoi lavori appena usciti dal tornio o dal forno, a seconda della lavorazione, "per farli stagionare" diceva lui. Dopo alcune settimane erano pronti per passare alla seconda fase della smaltatura.
Riprendiamo la storia, lanciata l'idea, ponderata e accettata, freneticamente si passò alla sua elaborazione.
Punto primo: il gioco consisteva nel lanciare a turno un sasso con la fionda da una distanza di sessanta metri circa, ovvero dal punto della strada più vicino ad un angusto vicolo laterale che rappresentava l'eventuale unica via di fuga senza incorrere nell'intralcio di vari passanti.
Punto secondo: stilare una graduatoria di merito per valutare i tiri che andavano a bersaglio. Ora occorre dire che i manufatti del vasaio erano piccole giare, vasi, ciotole, brocche, bicchieri e fiaschi di vario formato. Il punteggio fucosì proposto:
Punti dieci per grandi vasi, giare, bicchieri e fiasconi da due litri, tutti di altezza intorno ai quaranta centimetri.
Punti venti per giare, ciotole, brocche e fiasconi da un litro, tutti di altezza intorno ai venticinque trenta centimetri.
Punti cinquanta per ciotole, brocche e fiaschi da mezzo litro di altezza inferiore ai venti centimetri.
Stabilite norme e punteggio si aspettò la prima giornata di sole che non si fece attenderemolto.
Quel giorno, armati di sassolini e, chi ne aveva, di fionde, che poi venivano prestate agli sprovvisti, alla spicciolata ci riunimmo nella strada. Prendemmo posizione nel vicolo e a turno uscivamo allo scoperto per il tiro al bersaglio.
Il "gioco" durò parecchio, uno perché avevamo una mira del cavolo e poi perché il povero Giacchino era impegnato all'interno col tornio che faceva un cigolio che sembrava il lamento di un'anima dannata.
Ogni tanto avveniva qualche centro seguito da un coro di urrah, poi tutti pronti nel vicolo a darsela a gambe nel caso che Giacchino o qualcuno dei passanti se ne fosse accorto. In mancanza di riscontri avanti il prossimo. Quando avevamo già distrutto una decina di manufatti una donna di passaggio lanciò alte grida di richiamo attirando l'attenzione non solo di Giacchino ma anche di "Saltafosso" la guardia comunale che stazionava perennemente sul "corso". Questi con il fischietto riuscì ad attirare l'attenzione di un sacco di persone tra cui, sfortunatamente, il fratello maggiore di uno della banda che, correndo per la strada principale andò all'uscita del vicolo giusto in tempo per placcare il fratello e, catturatolo, riportarlo a casa tenendolo per un orecchio.
Come sempre avviene nei regimi totalitari il predestinato prigioniero non tardò molto a confessare sotto minaccia di tortura il nome dei complici.
Epilogo immediato: la sera furono cinghiate sul sedere per tutti i componenti della banda, nessuno escluso.
Epilogo ritardato: tutti i genitori dovettero acquistare da Giacchino il pezzo più caro dei suoi manufatti al prezzo da egli imposto.
Questa volta voglio sollevarvi dal farmi la domanda di rito se questa sia una storia vera, perché, se avete la bontà di seguirmi, vi conduco nella vecchia casa paterna a Montepiano dove, abbandonato in un angolo della cantina vi è un grosso fiascone in terracotta da due litri (da noi chiamato in dialetto Hummolone).


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